Quarantadu
Quarantadu si svegliò quel mattino con
un senso di sbigottimento. La notte non era stata granché: il vento non aveva
smesso un minuto e il portello metallico aveva continuato a cigolare a
intermittenza, sbattendo contro la fiancata della botte secondo la ritmica
delle folate che da nord investivano la valle.
Si alzò, ripiegò la stuoia di canapa
spessa che usava come materasso e la ficcò nell’andito tra il portello e la
parete d’acciaio del silos, quindi fece lo stesso con il telo di sacco, ruvido
e spesso, col quale si riparava dall’umidità di quelle afose nottate di fine
estate. Poi si sporse fuori e allungando tutto il braccio tirò dentro il
secchio dell’acqua piovana. Con le mani raccolte a conca ne prese un poca e se
la passò sul viso. Si strofinò vigorosamente il collo e le ascelle fino a che
non le vide arrossare, sentendo un’ondata di benessere corrergli per il corpo,
quindi lanciò un’occhiata di sfuggita alla sua faccia, riflessa sulla parete
d’acciaio ricurvo della botte, ma questa, segnata dalla mala notte, gli parve
ancora più inespressiva e scialba del solito, e se ne ritrasse disgustato. Si
rivestì. Da una cassetta di legno, modello confezione regalo, grande e
profonda, adatta a una magnum da cinque litri, trasse una casacca di cotone
sdrucito. Se la infilò dalla testa e intanto prese dalla cassetta una vecchia
cravatta di seta rossa, che ancora portava il segno di un marchietto a forma di
cavatappi, e se la passò attorno al collo, senza annodarla. Richiuse la
cassetta e la ripose su uno scaffaletto metallico alle sue spalle, dove stavano
allineate altre cassettine della stessa specie, di grandezza diversa. Tutte
portavano stampigliato sul cofano uno scudetto e la scritta “Garbussola Vini di
Pregio srl”.
Si strinse al collo la cravatta,
infilò un paio di scarpe da tennis, sdrucite al pari della casacca e con un
buco vistoso in corrispondenza dell’alluce destro, che vi sbucava fuori ogni
volta che allungava il passo, come una muricciola dalla sua tana, e uscì dalla
botte. Il sole ormai era spuntato da un po’, e nel guardarsi indietro
Quarantadu non poté fare a meno di osservare la cisterna in acciaio inox, nuda
come un monumento sepolcrale, che un tempo era servita per lo stoccaggio di
vini refrigerati e che ora gli serviva da riparo. Era stata la più grande tra
le sue cinque sorelle, e fino a qualche anno prima troneggiava fra di esse da
padrona; ora però, dopo il “gelicidio carbonatico”, come era stato battezzato
dagli studiosi dell’università di Verona, restava da sola a fare la guardia ai
campi. Era troppo grande, e non c’era stato il tempo di smantellarla e portarla
via come le altre, prima che la polvere finisse per formare anche su di essa un
unico manto di boiacca durissima. Accanto a lei, incapsulato nel suo involucro
di sasso, il trattore, ancora con l’autobotte al traino. Nell’insieme, le viti
avviluppate ai tiranti d’acciaio dei filari a Guyot, la cantina e la stessa
casa padronale, svuotata della mobilia e con le finestre prive di infissi che
parevano orbite vuote di un teschio, creavano come un unico enorme quadro, una
lugubre installazione spontanea che andava dalla valle dell’Adige fino alla
città. Irrigidita sotto la coltre che l’aveva imprigionata, la Valperduta era
sigillata nel suo involucro come una nuova Ercolano, o una Pompei dell’era
industriale.
Quarantadu trasse un gran respiro,
fece qualche piegamento, due, tre circonduzioni delle braccia, giusto per
sciogliere le articolazioni, e cominciò la sua corsetta. Come tutte le mattine,
costeggiò il brolo della villa, poi proseguì a zig zag fra i tronchi dei grandi
cedri del parco, che giacevano per traverso sul sentiero come le ossa di qualche
antico mostro preistorico, e imboccò con decisione la strada verso il paese.
Intorno, non un rumore, un’eco. Nulla.
Arrivato al bivio delle scuole, prima
di salire verso il vaio si fermò a guardarsi indietro. Il sole picchiava forte,
e riflesso dalle sagome delle case, lisce e scintillanti, ricoperte con i loro
giardinetti da un’unica, grande glassa traslucida, era ancora più cattivo.
Quarantadu si asciugò la fronte col dorso della mano. Era vecchio, ormai. Da
quanti anni viveva in quella botte, unico abitante di una valle che un tempo
aveva ospitato più di sessantamila persone? Troppi. Ormai ne aveva perso il
conto.
Pensò al suo nome, a come la sua
famiglia se lo era portato dietro da generazioni, fino a lui, senza un perché
preciso. Un nome che non significava nulla, e che un romanziere svagato avrebbe
potuto scegliere a caso per designare una assurda combinazione di storie, con
vampiri e morti viventi, irruzioni di alieni, o altre fantasie improbabili, e
si sentì ancora più solo e abbandonato da tutti.
“Poche storie,” si disse. Riprese la
corsa con lena rinnovata e raggiunse il punto di arrivo, lo spiazzo della
cementiera dove ogni mattina si fermava a fare i suoi esercizi. Un’ora di
flessioni e di stretching, giravolte e distensioni utilizzando una serie di
macchine di fortuna che egli stesso si era costruito utilizzando i tronchi
delle robinie rovinati sul piazzale. La violenza della caduta li aveva
scrostati dal callo di sasso che li rivestiva e avevano in parte riacquistato
la loro elasticità originaria. Si era così costruito una serie di bastoncini,
di varia lunghezza, delle clave rudimentali, e intrecciando la corteccia anche
delle corde con cui si era inventato una serie di esercizi.
Il piazzale aveva anche un altro
vantaggio. L’enorme torre della cementiera, in parte rovinata al suolo il
giorno dello scoppio, proiettava un’ombra gradevole al riparo della quale
Quarantadu poteva sostare di quando in quando nelle sue corsette attorno allo
spiazzo. Passò così una mezzora, corricchiando in tondo e fermandosi ogni tanto
per gli esercizi, poi si sciacquò in una pozza di acqua piovana e riprese il
percorso verso casa. Nel ritorno Quarantadu sfiorò il muraglione della
fabbrica, che tornava a mostrare le vecchie scritte, a suo tempo malamente
cancellate da mani di vernice bianca e ora di nuovo riaffioranti: “Il cemento
ti cementa. Ribellati”, “No alla cementiera”, “Sindaco boia”. Quindi risalì
fino alla piazza del paese. Incrociò il municipio, con le due bandiere, veneta
e della Repubblica italiana, che pendevano dall’asta rigide come due baccalà
rinsecchiti, e scese per la strada delle Molfette, passando tra le vecchie
corti deserte. Valperduta si apriva davanti a lui silenziosa e vasta. Un’unica
distesa di paesi e di campi, spopolata e solcata da strade deserte, ormai
inutili. Dopo l’esplosione, avvenuta giusto dieci anni prima, alle 11.32 del 25
agosto 2012, la ciminiera del forno a cicloni aveva continuato per mesi a
eruttare cemento, senza che nessuno riuscisse a fermarla. Una nube densa e
velenosa aveva sommerso l’intera vallata, con le sue case, le strade, le vigne.
Con i suoi abitanti. Tanti erano morti. Gli altri, fuggiti in città, o più
lontano, via da quell’inferno. Poi, lentamente, era calato il silenzio.
Impastato dalle piogge, il cemento si era solidificato in una corteccia dura e
impermeabile, finendo di soffocare ogni forma di vita. Una piccola parte, però,
si era mantenuta nel suo stato primitivo, e ancora quel giorno una cipria
inodore ormai incapace di rapprendersi veniva trascinata dal vento in rapide
folate, andando ad ammonticchiarsi negli angoli delle vie, contro le marogne e
i muri delle case, nell’incavo delle cunette, dei fossi di scolo. Rivestiva gli
alberi, i ciuffi d’erba, i viluppi delle liane nelle siepi, dando vita a
mutevoli fantasmagorie vegetali che nel loro variare incessante davano
l’illusione di una vita che si manteneva a dispetto di tutto.
Ma era, appunto, illusione.
Arrivato al bivio che portava alla
cantina, Quarantadu diede un’occhiata al portico della vecchia casa di sassi e
alla gallina rimasta a covare per sempre le sue uova di pietra, poi riprese la
sua corsa senza voltarsi, e in dieci minuti era tornato. La botte di acciaio,
col tettuccio spesso e solido come il carapace di una enorme tartaruga,
sembrava sorridergli dalla sua bocca sdentata, il chiusino a tenuta stagna
millimetri 600 x 800 che gli si apriva davanti beffardo.
Un giorno quella cisterna, modello
Megatank a serbatoio termostatico, con intercapedine di schiuma poliuretanica
ricoperta in lamiera inox da 12/10 a giunture sigillate, era stata l’orgoglio
di Ermanno Garbussola, detto Quarantadu, re dello spumante e gran signore del
passito. Ora serviva solo come rifugio di un vecchio senza illusioni e senza
eredi.