giovedì 27 settembre 2012

Quarantadu

Quarantadu
 


Quarantadu si svegliò quel mattino con un senso di sbigottimento. La notte non era stata granché: il vento non aveva smesso un minuto e il portello metallico aveva continuato a cigolare a intermittenza, sbattendo contro la fiancata della botte secondo la ritmica delle folate che da nord investivano la valle.
Si alzò, ripiegò la stuoia di canapa spessa che usava come materasso e la ficcò nell’andito tra il portello e la parete d’acciaio del silos, quindi fece lo stesso con il telo di sacco, ruvido e spesso, col quale si riparava dall’umidità di quelle afose nottate di fine estate. Poi si sporse fuori e allungando tutto il braccio tirò dentro il secchio dell’acqua piovana. Con le mani raccolte a conca ne prese un poca e se la passò sul viso. Si strofinò vigorosamente il collo e le ascelle fino a che non le vide arrossare, sentendo un’ondata di benessere corrergli per il corpo, quindi lanciò un’occhiata di sfuggita alla sua faccia, riflessa sulla parete d’acciaio ricurvo della botte, ma questa, segnata dalla mala notte, gli parve ancora più inespressiva e scialba del solito, e se ne ritrasse disgustato. Si rivestì. Da una cassetta di legno, modello confezione regalo, grande e profonda, adatta a una magnum da cinque litri, trasse una casacca di cotone sdrucito. Se la infilò dalla testa e intanto prese dalla cassetta una vecchia cravatta di seta rossa, che ancora portava il segno di un marchietto a forma di cavatappi, e se la passò attorno al collo, senza annodarla. Richiuse la cassetta e la ripose su uno scaffaletto metallico alle sue spalle, dove stavano allineate altre cassettine della stessa specie, di grandezza diversa. Tutte portavano stampigliato sul cofano uno scudetto e la scritta “Garbussola Vini di Pregio srl”.
Si strinse al collo la cravatta, infilò un paio di scarpe da tennis, sdrucite al pari della casacca e con un buco vistoso in corrispondenza dell’alluce destro, che vi sbucava fuori ogni volta che allungava il passo, come una muricciola dalla sua tana, e uscì dalla botte. Il sole ormai era spuntato da un po’, e nel guardarsi indietro Quarantadu non poté fare a meno di osservare la cisterna in acciaio inox, nuda come un monumento sepolcrale, che un tempo era servita per lo stoccaggio di vini refrigerati e che ora gli serviva da riparo. Era stata la più grande tra le sue cinque sorelle, e fino a qualche anno prima troneggiava fra di esse da padrona; ora però, dopo il “gelicidio carbonatico”, come era stato battezzato dagli studiosi dell’università di Verona, restava da sola a fare la guardia ai campi. Era troppo grande, e non c’era stato il tempo di smantellarla e portarla via come le altre, prima che la polvere finisse per formare anche su di essa un unico manto di boiacca durissima. Accanto a lei, incapsulato nel suo involucro di sasso, il trattore, ancora con l’autobotte al traino. Nell’insieme, le viti avviluppate ai tiranti d’acciaio dei filari a Guyot, la cantina e la stessa casa padronale, svuotata della mobilia e con le finestre prive di infissi che parevano orbite vuote di un teschio, creavano come un unico enorme quadro, una lugubre installazione spontanea che andava dalla valle dell’Adige fino alla città. Irrigidita sotto la coltre che l’aveva imprigionata, la Valperduta era sigillata nel suo involucro come una nuova Ercolano, o una Pompei dell’era industriale.
Quarantadu trasse un gran respiro, fece qualche piegamento, due, tre circonduzioni delle braccia, giusto per sciogliere le articolazioni, e cominciò la sua corsetta. Come tutte le mattine, costeggiò il brolo della villa, poi proseguì a zig zag fra i tronchi dei grandi cedri del parco, che giacevano per traverso sul sentiero come le ossa di qualche antico mostro preistorico, e imboccò con decisione la strada verso il paese.
Intorno, non un rumore, un’eco. Nulla.
Arrivato al bivio delle scuole, prima di salire verso il vaio si fermò a guardarsi indietro. Il sole picchiava forte, e riflesso dalle sagome delle case, lisce e scintillanti, ricoperte con i loro giardinetti da un’unica, grande glassa traslucida, era ancora più cattivo. Quarantadu si asciugò la fronte col dorso della mano. Era vecchio, ormai. Da quanti anni viveva in quella botte, unico abitante di una valle che un tempo aveva ospitato più di sessantamila persone? Troppi. Ormai ne aveva perso il conto.
Pensò al suo nome, a come la sua famiglia se lo era portato dietro da generazioni, fino a lui, senza un perché preciso. Un nome che non significava nulla, e che un romanziere svagato avrebbe potuto scegliere a caso per designare una assurda combinazione di storie, con vampiri e morti viventi, irruzioni di alieni, o altre fantasie improbabili, e si sentì ancora più solo e abbandonato da tutti.
“Poche storie,” si disse. Riprese la corsa con lena rinnovata e raggiunse il punto di arrivo, lo spiazzo della cementiera dove ogni mattina si fermava a fare i suoi esercizi. Un’ora di flessioni e di stretching, giravolte e distensioni utilizzando una serie di macchine di fortuna che egli stesso si era costruito utilizzando i tronchi delle robinie rovinati sul piazzale. La violenza della caduta li aveva scrostati dal callo di sasso che li rivestiva e avevano in parte riacquistato la loro elasticità originaria. Si era così costruito una serie di bastoncini, di varia lunghezza, delle clave rudimentali, e intrecciando la corteccia anche delle corde con cui si era inventato una serie di esercizi.
Il piazzale aveva anche un altro vantaggio. L’enorme torre della cementiera, in parte rovinata al suolo il giorno dello scoppio, proiettava un’ombra gradevole al riparo della quale Quarantadu poteva sostare di quando in quando nelle sue corsette attorno allo spiazzo. Passò così una mezzora, corricchiando in tondo e fermandosi ogni tanto per gli esercizi, poi si sciacquò in una pozza di acqua piovana e riprese il percorso verso casa. Nel ritorno Quarantadu sfiorò il muraglione della fabbrica, che tornava a mostrare le vecchie scritte, a suo tempo malamente cancellate da mani di vernice bianca e ora di nuovo riaffioranti: “Il cemento ti cementa. Ribellati”, “No alla cementiera”, “Sindaco boia”. Quindi risalì fino alla piazza del paese. Incrociò il municipio, con le due bandiere, veneta e della Repubblica italiana, che pendevano dall’asta rigide come due baccalà rinsecchiti, e scese per la strada delle Molfette, passando tra le vecchie corti deserte. Valperduta si apriva davanti a lui silenziosa e vasta. Un’unica distesa di paesi e di campi, spopolata e solcata da strade deserte, ormai inutili. Dopo l’esplosione, avvenuta giusto dieci anni prima, alle 11.32 del 25 agosto 2012, la ciminiera del forno a cicloni aveva continuato per mesi a eruttare cemento, senza che nessuno riuscisse a fermarla. Una nube densa e velenosa aveva sommerso l’intera vallata, con le sue case, le strade, le vigne. Con i suoi abitanti. Tanti erano morti. Gli altri, fuggiti in città, o più lontano, via da quell’inferno. Poi, lentamente, era calato il silenzio. Impastato dalle piogge, il cemento si era solidificato in una corteccia dura e impermeabile, finendo di soffocare ogni forma di vita. Una piccola parte, però, si era mantenuta nel suo stato primitivo, e ancora quel giorno una cipria inodore ormai incapace di rapprendersi veniva trascinata dal vento in rapide folate, andando ad ammonticchiarsi negli angoli delle vie, contro le marogne e i muri delle case, nell’incavo delle cunette, dei fossi di scolo. Rivestiva gli alberi, i ciuffi d’erba, i viluppi delle liane nelle siepi, dando vita a mutevoli fantasmagorie vegetali che nel loro variare incessante davano l’illusione di una vita che si manteneva a dispetto di tutto.
Ma era, appunto, illusione.
Arrivato al bivio che portava alla cantina, Quarantadu diede un’occhiata al portico della vecchia casa di sassi e alla gallina rimasta a covare per sempre le sue uova di pietra, poi riprese la sua corsa senza voltarsi, e in dieci minuti era tornato. La botte di acciaio, col tettuccio spesso e solido come il carapace di una enorme tartaruga, sembrava sorridergli dalla sua bocca sdentata, il chiusino a tenuta stagna millimetri 600 x 800 che gli si apriva davanti beffardo.
Un giorno quella cisterna, modello Megatank a serbatoio termostatico, con intercapedine di schiuma poliuretanica ricoperta in lamiera inox da 12/10 a giunture sigillate, era stata l’orgoglio di Ermanno Garbussola, detto Quarantadu, re dello spumante e gran signore del passito. Ora serviva solo come rifugio di un vecchio senza illusioni e senza eredi.

lunedì 28 novembre 2011

Dieci

Aveva pianto. Non lo aveva mai visto piangere a quel modo, e le dispiaceva. Nonostante tra loro non fosse mai esistita una vera passione, era legata a quell’uomo. Gli voleva bene. Quel bene che dopo un poco, nei matrimoni, diventa la tranquilla abitudine di avere qualcuno accanto, purchessia, e vederlo piangere, così, senza motivo apparente, l’aveva colmata di inquietudine.
Ancora adesso, passata la notte e rientrata al lavoro, Alida sentiva il disagio di quello sfogo, come nascondesse un sottile ricatto (continua)

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Undici

– Qual è il senso della vita di una donna, Nadia? Non si stupisca, è da quando sono alta così che mi faccio questa domanda, e infine pensavo di aver trovato la risposta. L’unica giusta. Non mi guardi con quella faccia. Che io sia il suo capo non ha alcuna importanza. Mi dica, Nadia, c’è un senso nei nostri sacrifici? Di donne, voglio dire….
– Ma, non saprei. Non è che io mi sia chiesta molte volte se era bene o male, se potevo chiedere una cosa o l’altra. Il fatto che potessi ottenerla mi è sempre sembrato sufficiente per andare avanti. A chiedere, voglio dire. Non è questo che ci si aspetta da una donna? (continua)

mercoledì 23 novembre 2011

Otto

Non smetteva di tormentarsi. Perché non chiamava? Aspettava un messaggio con ansia. Il cuore, a tratti, pareva scoppiargli nel petto. Gli troncava il respiro. Aprì e chiuse il cellulare. Le dieci passate. Che aspettava? A quell’ora, doveva essere in ufficio da un pezzo. Perché non si faceva viva? Si tirò a sedere. Il muscolo tra le scapole si fece sentire, ancora una volta dolorosamente. Non poteva andare avanti a quel modo. Ma che fare? (continua)
Nove

Perché si era sposato? E perché proprio con quella donna? Alida aveva una sua bellezza, anche se poco appariscente. Intelligente, sapeva affrontare le situazioni, e le responsabilità non le facevano paura, non si tirava indietro di fronte a nulla. Era affettuosa, e certi suoi slanci a volte lo sorprendevano, anche se in fondo restava una donna semplice. L’ideale per mettere su famiglia, avere dei figli. Una brava donna di casa. Prima di lui, gli aveva detto, non aveva avuto nessuno. Forse era vero, forse no, ma che importava? Ora era sua, tutta sua. (continua)

mercoledì 9 novembre 2011

elegia settimo

Era terrorizzato. Quella notte il vento infuriava senza sosta. La stagione cambiava, stava entrando nel periodo più turbolento, e i cambiamenti, su in collina, erano più rapidi e crudi. Alcune imposte malferme al pianterreno continuavano a sbattere. Nel dormiveglia, interrotto da continui incubi, Fernando Ledri aveva sentito sua moglie alzarsi più volte e scendere fuori. Per poco, gli scuri avevano smesso, ma poi il vento era sempre riuscito a riprendere il suo gioco.
A un tratto, qualcosa... (continua)
elegia sesto

Appoggiata a una pila di mattoni, in cortile Alida osservava la luna tramontare dietro la collina.
Era tardi, ormai. Leonardo era a letto, e il più grande finiva i compiti nella sua camera. Anche Maria se n’era andata.
Quanto tempo era passato. Si era sposata giovane. Appena ventun’anni. Una ragazza senza esperienza. Prima, al liceo, aveva avuto una mezza storia. Lui era un ragazzo alto, sgraziato. Stava nella sua stessa classe ma aveva due anni più di lei. Gli piaceva quell’aria spavalda che aveva... (continua)

lunedì 31 ottobre 2011

elegia quinto

Alida uscì lentamente dalla città. Seduta alla guida, fantasticava, la mano distesa lungo il fianco. Tra indice e medio, senza accorgersene arricciava l’orlo della gonna, un leggero pizzo di trina, grigio chiaro, morbido al tatto…
Quel tocco le dava un lieve piacere, così simile a quello dei suoi primi baci di ragazza. Lo stessa emozione del primo raggio di sole sulla sua pelle nuda, quando sul finire della primavera con le amiche scendeva al bagno giù al lago, alla Baia delle sirene. Al tocco dell’acqua, in precario equilibrio sui viscidi ciottoli(segue)